Cibo e Cucina

Santi, cuochi ed eroi: la cucina come unica forma d’arte viva?

Il co’o Baffunto.
Un vero artista.

“Chi vorrebbe mettere al mondo dei figli se poi la loro massima aspirazione è quella di diventare dei cuochi” dice il Buce, il Batrace Stivaluto redivivo nel film “Sono tornato” e l’ho sentito poi citare per dimostrare la decadenza dei costumi gastonomico-antropologici e “l’epidemia di cuochi in televisione”, come ha scritto qualcuno. Ebbene, il film di Luca Miniero è un’occasione perduta. Un’idea divertente che darebbe il destro d’usare il Gran Somaro per praticare della sottile ironia sull’Italia contemporanea, ma che viene invece sprecata per trinciare giudizi e luoghi comuni. Davvero deludente. Non è che io voglia mettermi a fare recensioni cinematografiche, ma è dall’aver sentito citare l’incipit del mio post, che esso prende lo slancio. 

Quale è quindi la funzione della Cucina nella nostra società attuale? È banale mangiatoia? Si può invece definirla come una forma d’arte?  È forse, addirittura, l’unica forma d’arte vitale all’epoca delle reti sociali virtuali?  La cucina è in definitiva l’unico “sistema” identitario antropologico collettivo sopravvissuto alla piallatura dei suoi omologhi alternativi. 

La religione è diventata solo pretesto per irrazionalismo, violenza e per odiare persone a caso, non potendosi quel sistema di miti più appigliare a un diffuso bisogno di trascendenza o più banalmente di fuga dalla vera sofferenza del vivere quotidiano. La gente ormai è troppo gravata e desensibilizzata per avere davvero un’aspirazione simile.

L’arte (contemporanea) è una cloaca di non-sense e di ignoranza, la cui capacità teoretica è ormai pari a quella della musica pop, cioè uguale a zero, e lo dico per esperienza molto molto diretta, non come commento da bar.

Che altro?

Il cinema? Lasciamo perdere. Mediocre a livello globale e con un’evidente ritardo evolutivo a livello italico/romanesco.

Il mio amato Romanzo è ormai puro intrattenimento, per quei pochi a cui interessa. Che fine ha fatto la densità di senso di Cuore di Tenebra?

La musica? Un’arte passiva e ancorata a grandi geni morti da secoli, checché lagni la spocchia del povero Maestro Muti* con la sua solita effervescente simpatia! 

E l’ultimo baluardo di aggregazione? La TV dell’epoca della RAI degli anni ’60 e ’70, il cosiddetto regno Bernabei**? Già ne era morta la qualità negli anni ’80 con la conseguente marcescenza nei ‘90, ma con lo streaming anche il gruppo della gente che si poteva trovare la mattina al bar per discutere a vuoto di calcio e del Festival si è ridotto fino a quasi nulla.

Non voglio dire che in queste frammentazioni e dissoluzioni ci sia qualcosa di particolarmente negativo. Dico solo che tutto questo parcellizza la nostra società, frantumando in mille inutili identità le precedenti e poco meno inutili, ma più estese ed inclusive identità. Confessione, Nazione, Ideologia, Lingua, ecc. 

E la Cucina? Come dicevo, la cucina sembra essere andata indenne da questo fenomeno di progressivo annullamento encefalico e pare riuscire ancora ad agire come legante antropologico di una cultura condivisa, benché regionale e locale non certo nazionale, quantomeno in Italia, Spagna e Francia, Vietnam, Giappone e Cina. Ci dispiace per gli altri paesi.

La funzione della pittura nel rinascimento, dicevo, era tra le altre quella di rappresentare i sentimenti comuni a “tutti”, condivisi da massaie e carrettieri, preti e nobilotti. Le persone si radunavano rapite di fronte a un Caravaggio appeso in una chiesa e quella cosa di tela, gesso e olio parlava a tutti. Ma Caravaggio era uno, l’eccellente, in una moltitudine di omologhi minori che espletavano la sua stessa funzione. Così oggi, la cucina parla a tutti, declinandosi in molte modalità diverse. L’analogia regge, dai! La cucina “popolare”, vissuta, interpretata e amata sia sul Tubo sia sullo schermo delle nostre brame, smuove la gente. La fa montare in macchina e correre di qua e di là, come se nella tale trattoria de li castelli non somministrassero solo vacca vecchia galiziana, ma contemporaneamente le indulgenze di una religione edonistica contemporanea. E questa è vita vissuta di tutti i giorni per molti.

Al di là c’è la cucina della sperimentazione e in mezzo, meschina, c’è la cucina simil-stellata da programma TV. Questi vari livelli di un’arte collettiva, in cui tanti si cimentano e di cui tutti godono, soddisfano desideri diversi, e come nell’antica pittura certe cose sono riservate a pochi, ma l’imitazione e l’apprendimento diffondono anche i concetti più alti a tutto il popolaccio.

La cucina è arte, probabilmente, ma certamente ne ha assunto la colloidale funzione sociale. L’elaborazione di concetti innovativi unita alla difesa e propagazione di una cultura culinaria più o meno antica sono le uniche forze che ancora ci conservano un’identità. Essere sprezzanti, solo perché anche il sistema dei format televisivi vi ricorre, nella sua organica penuria di idee, denuncia una certa mancanza di inventiva anche da parte nostra. La cucina televisiva consente di far salire i giri della propria libido gastronomica adorando e rimirando gli stellatissimi dello schermo piatto, per poi andarla a parcheggiare, più umilmente ma comunque con soddisfazione, nella trattoria del quartiere. Non c’è perversione in questo. È comprensibile e forse anche bello.

Se poi avete nostalgia degli ideali del Mascellone, rimpianto per l’arte guerresca e futurista, il problema è vostro: è una schizofrenia tra quello che vorreste per gli altri (il servizio militare, la guerra, le virtù marziali) e quello che vigliaccamente desiderate per voi stessi e i per vostri cari (un buco dove rimpiattarvi).

Se aspirare a fare il cuoco ci consente di non aspirare a far saltare in aria il prossimo, rimanendo in qualche misura noi stessi, questo per me è una grande conseguimento di civiltà e un esito inatteso, lasciatemelo dire, per qualcosa che fin dai grandi libri di Dumas e dell’Artusi ha risalito la china della volgarità fino ad divenire sistema culturale, attivo e con una certa potenza teoretica, oltreché fonte di adipe e sovrappeso. Ma sul ritorno a un’estetica del corpo di matrice etrusca scriverò forse in un qualche futuro.

Questo è quel che ci rimane, questo è quel che dobbiamo proteggere e ricordiamoci sempre che Marinetti voleva abolire la pastasciutta***.

P.S.

Da quello che scrivo sopra potrebbe sembrare che io non apprezzi a dovere il Futurismo, che viceversa ritengo l’unico movimento intellettuale collettivo di valore prodotto dall’Italia nel ‘900. Sta di fatto però che, accecati dai brum brum, dagli swash e dall’amore per il lucido acciaio, difettavano di quella minima dotazione di ironia per accorgersi a quale ridicolo regime politico si erano abbracciati. Non è facile, per un movimento artistico, riprendersi da una simile caduta di stile, anche dopo molti anni. Queste mie considerazioni non mi fanno amar meno Perelà, uomo di fumo****.

NOTE:

* Ebbene sì, mi avete scoperto! Sono sempre stato un partigiano del fu Maestro Abbado! tinyurl.com/w8z6oe8

** È un’epoca di strane e deliziose alchimie socio-politiche, quella in cui il Manifesto tesse le lodi di Bernabei, rimpiangendolo: è già passata? In definitiva era il 2016: tinyurl.com/wqkswoc 

*** La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa: tinyurl.com/wp6faac 

****  Il codice di Perelà di Aldo Palazzeschi: tinyurl.com/u6eb5cx

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