Santi cuochi ed eroi. La cucina come forma d’arte e alcuni scherzi su contemporaneità e fascismo
Brogliaccio del video: youtu.be/EbpjxoSbcb4
“Chi vorrebbe mettere al mondo dei figli se poi la loro massima aspirazione è quella di diventare dei cuochi” dice il Buce, il Batrace Stivaluto1 redivivo in un film oramai quasi dimenticato ma che mi ritorna alla mente di tanto in tanto: “Sono tornato”. Questo attacco alla dignità del mestiere di cuoco l’ho sentito poi citare per dimostrare la decadenza dei costumi gastonomico-antropologici e “l’epidemia di cuochi in televisione”, come ha scritto un tale.
Il film di Luca Miniero è poco più di un’occasione perduta. Un’idea divertente che darebbe modo d’usare il Gran Somaro per praticare della sottile ironia sull’Italia contemporanea, ma che va sprecata per ammannire all’incauto spettatore pre-giudizi e luoghi comuni sull’oggi, in un’Italia oggi orgogliosamente rifascistizzata. Davvero deludente. Non voglio certo mettermi a fare recensioni cinematografiche di pellicole mediocri e già datate, ma è dall’aver sentito tronfiamente citare l’incipit, che prendo davvero lo slancio per questa mia pacata invettiva.
Quale è la funzione della Cucina nella nostra società occidentale, maschilista, post-coloniale e eterocentrica? È banale mangiatoia? O si può invece definirla come una reale forma d’arte? È forse , addirittura, l’unica forma d’arte vitale all’epoca delle reti sociali virtuali?
Non sarà che la cucina è addirittura l’unico “sistema” identitario antropologico collettivo, sopravvissuto alla piallatura dei suoi omologhi e alternativi? Quanto meno, sopravvissuto un po’ di più, tanto da essere capace di risorgere dal declino degli anni ’80, fatto di scomparsa di ingredienti e di fast-food. Slow food gratias?
Montalban in Millennio 1, in uno sguardo traverso, alla nascita di un movimento, di “- Si tratta di una setta di gastrosofi, così mi ha detto un cameriere, che ebbe origine presso la sinistra italiana, soprattutto nel Pci, e che è diventata un importante movimento riformatore del gusto e protettore delle diversità autoctone di fronte alle incomprensive normative agropecuniarie del Mercato Comune. Si trovano nella fase di difesa di un qualcosa che loro chiamano Biodiversità. – Bibamus atque amemus, mea Lesbia… – si lanciò Carvalho in latino pieno di entusiasmo […]”
Onori, meriti e demeriti
La religione, per citare un analogo “sistema” di credenze e riti, è rimasta ormai soltanto pretesto per irrazionalismo, violenza e per odiare persone a caso, non potendosi il culto di dio, quel sistema di miti e superstizioni tanto utile in un’era pre illuminazione elettrica, neanche più appigliare a un diffuso bisogno di trascendenza o, più semplicemente, di fuga dal dolore del vivere quotidiano e dalla paura della morte. L’essere umano ormai è troppo gravato e desensibilizzato per avere davvero certi generi d’aspirazioni.
L’arte (contemporanea) è decaduta, nei casi migliori, in una massa di non-sense autoreferenziali e di semplice ignoranza, di quella solidamente costruita sui banchi di scuola. Nella peggiore delle eventualità siamo di fronte a butade con il solo scopo di conquistare visibilità e denari sonanti. La capacità teoretica dell’artista visivo, come e peggio di quella del musicista pop, tende infinitamente a zero.
Che altro rimane? Il cinema? Mediocre e in rapido peggioramento a livello globale e con un ritardo evolutivo a livello nazionale.
Il Romanzo? Ormai mero intrattenimento, per quei pochi a cui ancora interessa. Da molto tempo non incappiamo nella densità di senso di un Cuore di Tenebra, mi sembra.
La musica? Un’arte passiva, debitrice solo a grandi geni morti da secoli, checché lagnasse il povero Maestro Muti2 con la sua solita effervescente simpatia. Se mai la spocchia sarà innalzata a una forma d’arte, lì sapranno i critici futuri ravvisare l’inizio dell’ascesa.
E l’ultimo teatro e, contemporaneamente, focolare di aggregazione della famiglia nucleare? La TV dell’epoca della RAI degli anni ’60 e ’70, il cosiddetto regno Bernabei3**?
Ne era morta ogni qualità negli anni ’80, con conseguente marcescenza nei ‘90, ma con l’avvenire dello streaming il gruppo della gente che si trova la mattina al bar per discutere di calcio e del Festival, ne è l’unico portato. Oramai il fruitore medio della ex scatola magica è avviato sul viale coi cipressi e così quel mezzo espressivo.
In queste frammentazioni e dissoluzioni non c’è qualcosa di negativo in sé. È un processo evolutivo che magari ci porterà da qualche parte. Certamente, tutto questo parcellizza la nostra società, frantumando in mille inutili identità le precedenti e poco meno inutili, ma più estese ed inclusive identità: Confessione, Nazione, Ideologia, Lingua, e così via.
E la Cucina?
La cucina sembra avere reagito a questo progressivo annullamento intellettuale e sentimentale e pare riuscire ancora ad agire come legante antropologico di una cultura condivisa, benché regionale e locale giammai davvero nazionale. Questo legante sopravvive e prospera quantomeno in Italia, Spagna e Francia, Vietnam, Giappone e Cina. Degli altri paesi non dirò oltre.
La principale funzione della pittura, nel rinascimento e prima, era quella di rappresentare i sentimenti comuni a “tutti”, condivisi da massaie e carrettieri, preti e nobili. Le persone si radunavano rapite di fronte a un Caravaggio appeso in una chiesa e quella cosa di tela, gesso e olio parlava a tutti. Ma Caravaggio era uno, l’eccellente, in una moltitudine di omologhi minori che espletavano egregiamente la sua medesima funzione sociale. Così oggi, la cucina parla a tutti, declinandosi in molte modalità diverse. L’analogia regge, in qualche modo e mi ci voglio attenere come se davvero ci credessi.
La cucina “popolare”, vissuta, interpretata e amata sia sul Tubo sia sullo schermo delle nostre nonne, smuove la gente. La fa montare in macchina e correre di qua e di là, come se nella tale trattoria de li castelli non somministrassero solo vacca vecchia galiziana, ma contemporaneamente indulgenze di una religione edonistica contemporanea, fugace perdono per la vuota ciclica routine a cui ci rassegniamo sprecando ogni attimo della nostra vita.
E questa è vita vissuta di tutti i giorni per molti. Al di là c’è la cucina della sperimentazione e in mezzo, meschina, c’è la cucina simil-stellata da programma TV.
Questi vari livelli di un’arte collettiva, in cui tanti si cimentano e di cui tutti godono, soddisfano desideri diversi, e come nell’antica pittura certe cose sono riservate a pochi, ma l’imitazione e l’apprendimento diffondono anche i concetti più alti a tutto il maledetto popolaccio.
La cucina è arte, probabilmente, ma certamente ne ha assunto la colloidale funzione sociale. L’elaborazione di concetti innovativi unita alla difesa e propagazione di una cultura culinaria più o meno antica sono le uniche forze che ancora ci conservano un’identità.
Darne giudizi sprezzanti, solo perché anche il sistema dei format televisivi vi ricorre, nella sua organica penuria di idee, denuncia una certa mancanza di inventiva anche da parte nostra.
La cucina televisiva consente di far salire i giri della propria libido gastronomica adorando e rimirando gli stellatissimi dello schermo piatto, per poi andarla a parcheggiare, più umilmente ma comunque con soddisfazione, nelle trattorie di quartiere.
Non c’è perversione in questo. È comprensibile e forse anche bello.
Se poi avete nostalgia degli ideali veri e presunti del Mascellone, rimpianto per l’arte guerresca e futurista, il problema è vostro: è una schizofrenia tra quello che vorreste per gli altri (il servizio militare, la guerra, le virtù marziali) e quello che vigliaccamente desiderate per voi stessi e i per vostri cari: un buco dove rimpiattarvi per sfuggire al ruggito del mondo.
Se aspirare a fare il cuoco consente di non aspirare a far saltare in aria il prossimo, rimanendo in qualche misura noi stessi, questo è una grande conseguimento di civiltà e un esito inatteso, per qualcosa che fin dai grandi libri di Dumas e dell’Artusi ha faticosamente risalito la china della volgarità fino a divenire sistema culturale, attivo e con una certa potenza teoretica, oltreché fonte di adipe e sovrappeso.
Ma sul ritorno a un’estetica del corpo di matrice etrusca scriverò forse in un qualche futuro.
Questo è quel che ci rimane, questo è quel che dobbiamo proteggere e ricordiamoci sempre che Marinetti voleva abolire la pastasciutta4.
P.S.Da quello che dico sopra potrebbe sembrare che io non apprezzi a dovere il Futurismo. Al contrario, lo ritengo l’unico movimento intellettuale collettivo di valore prodotto dall’Italia nel ‘900. Però, accecati dai brum brum, dagli swash e dall’amore per il lucido acciaio, quei visionari difettavano della minima e sufficiente dotazione di ironia per accorgersi a quale ridicolo regime politico si erano abbracciati. Non è facile, per un movimento artistico, riprendersi da una simile caduta di stile, anche dopo molti anni. Queste mie considerazioni non mi fanno amar meno Perelà, uomo di fumo5.
NOTE:
- Batrace stivaluto: www.onemoreblog.org/2020/07/gadda-su-mussolini/ ↩︎
- Ebbene sì, mi avete scoperto! Sono sempre stato un partigiano del Maestro Abbado! https://tinyurl.com/w8z6oe8 ↩︎
- È un’epoca di strane e deliziose alchimie socio-politiche, quella in cui il Manifesto tesse le lodi di Bernabei, rimpiangendolo: è già passata? In definitiva era il 2016: tinyurl.com/wqkswoc ↩︎
- La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa: amzn.to/3ssWrtq ↩︎
- Il codice di Perelà di Aldo Palazzeschi: amzn.to/3Qy5aTg ↩︎