Vino e Vigna

Lasciate stare quella terra!!! Usi ed abusi nell’impianto di un vigneto

Foto ricavata da: tinyurl.com/sjgt32d e derivante dallo studio: tinyurl.com/uq4u3vz

Una tradizione consolidata sostiene che, per preparare la vite ad affrontare felice i successivi trent’anni su uno scampolo di terra, sia inevitabile lo stravolgimento del terreno agrario. È davvero così o questo genere di interventi sono invece non solo inutili, ma dannosi per il futuro “ecosistema vigneto”? Non saranno forse dettati più dagli interessi venali di quelli del movimento terra e dei tecnici, piuttosto che dai bisogni della vite e del vignaiolo (e dei suoi eredi)?
Partiamo da una semplice considerazione, anzi, meglio, ti faccio una domanda: le piante spontanee hanno qualche difficoltà a colonizzare il terreno che in futuro sarà occupato dal nostro vigneto? Sì? No? Ciò dipende naturalmente anche dalle caratteristiche storico-chimico-fisiche del suolo, ma generalmente la risposta è: NO. È così, in generale: le piante spontanee non hanno nessuna difficolta nel colonizzare il terreno agrario. È tanto vero che l’agricoltura convenzionale, e se è per questo anche una forma alquanto miope e base – per non dire terra terra – di viticoltura biologica, spende molte delle sue energie fisiche e chimiche proprio nel combattere queste “malerbe”, che apparentemente prosperano a spese delle loro più utili congeneri. Chi ha vissuto abbastanza a lungo la cultura delle campagne e dell’agricoltura in campo aperto – cioè “quella seria, dove si fa roba per davvero” – sa bene che uno degli stupori del contemporaneo fattore (ma anche un po anni ’80) motorizzato è: “Come mai le erbacce prosperano e il grano stenta?” Le malerbe sono miriadi: foglia stretta, foglia larga, rizomatose, da seme, perenni, annuali, ecc. E si moltiplicano e noi non ci diamo pace finche il terreno non prende un bel colore bruno, fino a ricordare una sterile pianura marziana, un habitat portato alla sua natura essenziale, anzi al suo scheletro, privato del caos e del disordine della vita, almeno apparentemente, letteralmente, in superficie. Ma la colonizzazione da parte delle erbe antagoniste delle nostre colture tra le quali, sia chiaro, si trovano molte erbe assai utili il cui uso è praticamente stato dimenticato, riparte sempre, vigorosa e pugnace e noi lì di nuovo a spandere chimica, a bruciare gasolio, a calpestare un suolo che sembra sostenere senza sforzo la molteplicità che non vogliamo, ma stenta continuamente ad alimentare il nostro semplificato modello di produzione di calorie tramite la monocoltura.
Una parte importante del successo delle erbe “cattive” deriva proprio dal fatto che tale colonizzazione non avviene, tipicamente, da parte di una singola specie, ma bensì da parte di una vasta e differenziata pletora di piante, piantine e piantacce. Questo cenacolo (in realtà questa fitocenosi) si arricchisce subito, inevitabilmente, di abitanti (zoocenosi) per costituire, abbastanza rapidamente, un habitat complesso (cenosi). In questa situazione di grande e operosa cooperazione-competizione tra fiorellini e lumachine, alcune specie iniziano a creare le loro proprie particolari “sfere di influenza” (biocenosi) e alleanze. Ed ecco che un terreno marrone, agli occhi dell’agricoltore convenzionale il più bello spettacolo del mondo – e la mia personalità da cerealicoltore spesso litiga con l’altra, quella del viticoltore, in quanto a questo –  si è trasformato in un troiaio di erbacce e sterpaglie. Lasciato a se stesso questo manto si trasforma pian piano in una macchia e poi, anche de iure, forse in un bosco o in un pezzo di steppa o qualcosa d’altro, comunque sempre e invariabilmente molto diverso da un campo arato. Nella fase successiva alla colonizzazione degli strati superficiali la cenosi si estende però al sottosuolo in un modo che è sempre stato sottovalutato e poco capito, sia dai signori delle università, sia dagli agricoltori coi trattori da 400 milioni di cavalli vapore. Là sotto si inizia ad intessere un complesso sistema nervoso, costituito di radici, funghi (micelle), batteri, nematodi e altri simili creature. Tramite questo intrico di cose vive che elaborano, bevono, defecano, uccidono e muoiono, il suolo ritorna a una ricchezza e a una complessità che non aveva più conosciuto da quando il primo aratro di ferro l’ha dissodata per la prima volta. Gli ultimi studi sembrano confermare qualche genere di vera e propria comunicazione, a questo livello, anche tra piante molto distanti. Una specie di rete micelio-radicale che si scambia veri e propri messaggi chimici. Ma lasciamo perdere Avatar e*… Torniamo al nostro vigneto. Orbene, si ritiene e non solo nei campi e sugli escavatori, ma anche in molti libri scritti su come si impianta il vigneto – non tutti così datati come si penserebbe – che sia irrinunciabile procedere a profondi scassi, drenaggi e roba simile. Il tecnico medio, e parlo di quelli con una bella laurea, arriva e comincia a parlare di ruspe e di accantonamento dello strato fertile e di livellamento. In realtà il più evidente problema di sistemazione dei terreni è proprio quello creato da massicci movimenti di terra, che dovrebbero portare il sistema vigneto a uno stato di graziosa razionalità ma che di fatto lo depauperano, lasciandolo bisognoso, di lì in poi di cure spasmodiche e costose, non solo dal punto di vista economico.
Perché la nostra idea di agricoltura contemporanea è così: è gravata da un bisogno di semplificazione della realtà con cui ci dobbiamo confrontare, che in definitiva sembra giustificarsi con il semplice fatto che il contadino deve confrontarsi con un avversario implacabile: il clima sotto un cielo aperto. Questo porta senz’altro a chiudere la mente alla complessità, che appare minacciosa, e che non viene valorizzata per una carenza endemica di tempo, forza e cultura. Bene, è l’ora di uscire da questa trappola e tornare a meditare approfonditamente su come ciò che ci appare un problema può essere trasformato in una risorsa, un nemico in più che un alleato. Come se non bastasse la sperimentazione su questo approccio è stata già fatta, è durata secoli e poi è stata rimossa per dare spazio a una strategia produttiva ideata a tavolino, sulla base di nuove tecnologie usate senza tenere in considerazione il fattore primario, il terreno. Tale sperimentazione, ben prima, senza nulla togliere, dell’avvento della rivoluzione del filo di paglia**, è quella della vecchia agricoltura, che era sinergica, biologica e basata sulla biodiversità. Era meno produttiva? Certo, se si considera la questione dal mero punto di vista della resa di un anno in termini di quantità. Se però si guarda la cosa sotto la luce di un vero bilancio dare e avere, includendo in esso la miserevole resa economica (non quantitativa, capitemi) attuale dei raccolti e il depauperamento della fertilità del suolo, allora il vantaggio dell’agricoltura industriale non è più così evidente come sostengono molti illuminati signori dell’Università. La ricerca di un’agricoltura simbiotica e sinergica, o meglio il suo recupero, dato che non è niente di nuovo, può partire, per quel che qui ci interessa, dal modo in cui costituiamo il nostro vigneto.  Mentre le implicazioni di questo approccio sono comprensibilmente molto complicate da applicare a un’agricoltura volta alle piante annuali, non ci sono scuse valide per non applicarlo all’interpretazione e alla progettazione di un vigneto che, non credete a chi vi dice diversamente, dovrebbe campare prima alto produttivo, poi alto qualitativo almeno 80 anni su un dato pezzo di terra, non 20 come sostiene la scuola agronomica dominante.
Per meglio capire cosa si può intendere per agricoltura aperta alla complessità, facciamo adesso un breve viaggio nel sottosuolo e nelle sue memorie. Nell’immaginario collettivo, nella generale visione mentale, e di questo collettivo fanno parte anche gli agricoltori, purtroppo, il sottosuolo è una specie di angolo cieco. Se domandi a caso a qualcuno come lui si rappresenta il sottosuolo (a partire da un millimetro sotto la superficie), probabilmente quella persona ti risponderà basandosi su quel poco e nulla che gli hanno insegnato a scuola, tramite la rappresentazione della famosa sfera con l’ottavo o giù di lì asportato, dove si vedono gli strati canonici della crosta terrestre. Intanto quello non è il suolo: è appunto tutta la crosta terrestre. Il suolo è la sua minuscola buccia superficiale e ciò che, in questa sede, ci interessa. Tutto il resto riguarda geologi, sismologi ed affini. Il suolo invece lo hanno voluto dividere in “orizzonti” che, nel bene e nel male, sono pur sempre degli strati di torta. L’interazione tra questi diversi strati (vatteli a vedere) è complessa e tutt’altro che priva di fascino. La vita gioca un ruolo importante in questo sistema complesso, agendo tramite il suo vivere e morire, attraverso l’attività animale e vegetale. Questo buio mondo ci riguarda da vicino, molto più di quel che si pensa o si è in grado di trovare il tempo di preoccuparsi, normalmente in agricoltura. La preoccupazione dell’agricoltore convenzionale è quella di dissodare il suolo, ovvero renderlo soffice dove lo si percepisce come costipato e duro, impenetrabile alle piante che vogliamo coltivare. Questa percezione è in buona parte falsa: come dicevamo prima le piante spontanee che nascono sul terreno “a sodo” non sembrano soffrirne. Fai un esperimento… Vicino a una vigna appena piantata o in un campo appena trebbiato e con una trivella a mano appena comprata (Ah! Il fascino del nuovo!!!), ci mettiamo a scavare dei buchi, così, tanto per scavare. Fatelo con i bambini! È un’esperienza importante, trattandosi di una esplorazione di com’è fatto il suolo che calpesti e – forse – coltivi e che io ho compiuto solo in età assai adulta. Ciò che scopriamo man mano che estraiamo strati di terreno, è affascinante e potrà essere materia di altre riflessioni. La cosa che qui però ci interessa è assai semplice: pur essendo estate e il suolo duro come il ferro (sennò lo fai nel fango fino alla caviglia), dopo quanto scavare questa durezza si è dissipata e ha lasciato spazio a un terreno sciolto, morbido, accondiscendente? Venti centimetri? Dipende e non importa. Questo fenomeno è detto “compattazione” ed è approfonditamente studiato su un piano tecnico e teorico, in particolare perché la compattazione superficiale del suolo deve essere inquadrata e resa prevedibile, quando su questo suolo dovranno esistere per un tempo indefinito strade, piloni di ponti e palazzi. Per quel che ci interessa, la compattazione con cui ci dobbiamo confrontare noi agricoltori è originata sostanzialmente dal calpestio dei trattori e raramente si estende a più di venti centimetri di profondità. Con la nostra trivella, scavando su un terreno periferico a una vigna, dopo un po’ troveremo probabilmente terreno sciolto, a parte le zone con suoli particolarmente pesanti. Questo è un primo semplice argomento contro le pratiche di aratura o di sbancatura selvaggia***: ribaltando un terreno sterile su un terreno fertile, sconvolgendo l’organizzazione in orizzonti, a favore di un interramento di sostanza organica che in tal modo sarà irraggiungibile dai processi batterici (aerobi) che la dovrebbero trasformare in humus, facciamo del bene solo a chi ci vende il gasolio, e invece lasciamo che l’azoto trattenuto dagli strati organici venga esposto alla radiazione solare e all’acqua meteorica, e così vada perso e dilavato. Insomma, l’errore in cui si incorre rivoltando il terreno, è che così interriamo masse organiche non ancora umificate, sotterrando spazzatura, invece che utile sostanza organica. Ma allora come trattare la sostanza organica superficiale, naturale o apportata con spandimenti e sovesci? In questo ci viene in soccorso l’osservazione della natura. Il bosco si ferilizza accumulando materiale morto SUL terreno. Esso si umifica (come il compost del contenitore che hai in cucina) e poi le sostanze vengono transitate verso la radice da vari meccanismi bio-chimico-fisici (non ultima la pioggia). L’aratura poi distrugge il patrimonio di micorrizze che costituiscono la preziosa rete di cui abbiamo detto e che rendono il suolo un’entità vivente. Ribaltandole fuori, all’aria le uccidiamo e danneggiamo il suolo in modo grave, forse irreversibile. Come è possibile che una pratica così diffusa e condivisa sia tanto sbagliata? Benvenuto nel mio mondo, anzi, nel nostro mondo dove la follia del profitto e dell’ignoranza impera sovrana. L’aratro attuale è l’evoluzione di un attrezzo che la terra a malapena la scalfiva, tirato da una robusta coppia di buoi o, prima ancora, di mogli. Quell’aratro si era evoluto poco o niente nei secoli che hanno preceduto l’invenzione del motore a scoppio. E con l’aumentare della potenza non tanto delle mogli, ma bensì dei trattori, l’aratro a versoio anziché scalfire ha iniziato a ribaltare, scavare fino a mezzo metro di profondità, seppellendo la vita e tirando fuori il terreno sottostante, se non sterile quantomeno non fertile. Nessuno si è preoccupato di questo aspetto fino a tempi relativamente recenti, ma oggi pare assodato che questa pratica universalmente adottata sta distruggendo il nostro terreno agrario.  I biodinamici per esempio, sempre agguerriti, hanno adottato l’aratro a mogli, l’hanno trasformato in un leggero erpice ad ancore curve e l’hanno attaccato al trattore. Con questo fantastico attrezzo si attacca la suola dura che il tempo e il calpestio hanno creato, ridando ossigeno e creando percorsi, senza danneggiare la tessitura viva del terreno. Tornando al nostro vigneto, i casi sono tipicamente due: o precentemente su quel terreno esisteva una vigna, oppure si trattava di un terreno a cereali. La terza ipotesi, che prima fosse bosco è da noi oramai piuttosto remota, ma può riguardare altri territori. Bene, nel secondo caso il terreno sarà andato soggetto a profonde arature, concimazioni chimiche – che non hanno fatto alcun bene alla vitalità e alla fertilità a lungo termine del suolo, ma hanno solo nutrito le piante del raccolto successivo – e trattamenti vari a base di diserbanti e pesanti trattori. Nel primo, è plausibile che si sia optato per vigna su vigna, anche a causa delle miopi politiche che riguardano la “ristrutturazione” dei vigneti, con tanto di profonde lavorazioni e magari interventi volti a sterilizzare il terreno dai terribili nemici chiamati nematodi. Davvero! Disinfettano il terreno con cosiddette “sostanze fumiganti”, invece di fare un paio d’anni di rotazioni. Sembra assurdo ma è così. Ebbene, in entrambi i casi, ma anche nel terzo, quel patrimonio di vita sotterranea costituito da radici, funghi e funghetti è andato quasi certamente perduto, insieme ai popoli più superficiali, di insetti predatori e piante utilmente consociate. A questa devastazione si può iniziare a porre un freno, se non rimedio, investendo pochi euro e “contaminando” le radici delle nuove barbatelle con micorrizze che poi esse stesse diffonderanno, con il continuo moto espansivo delle loro radici, colonizando un sottosuolo reso altrimenti inerte. A fianco di questa ancora poco praticata strategia di rianimazione del suolo, dobbiamo porci come governatori della biodiversità, assicurando che sul suolo dell’interfilare, ma oggi si inizia a ritenere che ciò valga anche per il sottofila, sia ricco in piante e in biodiversità, che operino anch’esse nel colonizzare e portare biodiversità al sottosuolo. In tal senso sarà utile seminare piante che si spingano nel sottosuolo e che intessano con la vite uno stretto balletto cooperativo-competitivo. Di solito di questa sinergia si vede solo la parte negativa, la competizione, ma sappiamo bene che in biologia ogni competizione è bilanciata da una cooperazione, proprio come succede tra la gazzella e il leone, competizione tra individui, cooperazione tra specie. Queste operazioni precedono in parte l’impianto delle nuove barbatelle, ed è un’opportunità che è meglio non mandare sprecata, per restaurare il nostro terreno e risanarlo. Ciò non toglie che le pratiche successive siano parimenti importanti e che gli opportuni inerbimenti con piante perenni possano in molti casi aiutarci a rendere più forti le nostre viti. In conclusione, la nostra visione monocroma del rapporto tra coltura ed erbe “infestanti” può e deve essere rivisto per diminuire l’impatto ecologico della monocultura chiamata vigneto e per dare ai nostri vini la vitalità che solo delle piante ben curate, coltivate e potate, possono dargli.

NOTE:

* How plants communicate using the underground information superhighway: tinyurl.com/rqq3bzv

** La rivoluzione del filo di paglia: tinyurl.com/t6cv9qt 

*** La terra è viva. Appunti di scienza contadina per una via italiana all’agricoltura biologica: tinyurl.com/qrht9ld

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