La svastica sul sole è brutto. libri e castelli in universi perpendicolari
// Brogliaccio del video: youtu.be/PWApmyQ0QDE //
“Ho letto La svastica sul sole. Mi è sembrato brutto.”
Così scriveva qualche tempo fa su FB un utente del bel gruppo “Leggo letteratura contemporanea”. Sì, perché in fondo su quel social network che a volte, come ad altri, mi riesce difficile non chiamare fognabook, che tanti si vantano di non usare più, che pare oramai dominio incontrastato della stupidità e della disinformazione, ancora resistono degli angoli di buon gusto minimo, di un minimo sindacale d’intelligenza, e questo gruppo non posso che considerarlo esempio di tale eccezionalità.
Quindi La Svastica sul Sole è brutto? Ebbene sì.
E qui molti faranno un salto, s’indigneranno, altri concorderanno, altri ancora non avranno idea di cosa si stia parlando. È brutto, sporco e cattivo.
È brutto, come è bello: è semplicemente un testo imprescindibile. Parliamo del romanzo ucronico per eccellenza. Gli argomenti trattati sono una moltitudine, lo spettro delle visioni più o meno allucinatorie è vasto e molto diversificato: ci sono le vicende dei singoli, numerosi personaggi, c’è il rapporto col femminile, sempre complesso, e quello con quella strana cosa chiamata realtà, ancor più complesso e conflittuale. C’è la visione della crudeltà, della cecità e mostruosità delle dittature e del razzismo assurto a forma di governo in costante e mortale intento selezione eugenetica globale. C’è ancora molto altro. È un libro brutto quanto un mondo, insomma.
Tornando al germe iniziale di questa mia riflessione, devo dire che ho trovato apprezzabile la reattività di un gruppo virtuale di persone dove un post così sintetico ed espressivo di una pura opinione “mi è sembrato…”, può suscitare una fitta, benché poco strutturata, discussione e dai toni i più animati. Da antichissimo estimatore di quel barbone delirante, mi verrebbe quasi da scrivere solo che “Dick non deve piacere”. Quasi, ma non mi riesce mai tenermi. Infatti…
Chi ha avuto modo di leggere i suoi scritti autobiografici (tipo confessions of a crap artist, in italiano confessioni di un artista di merda) e raccolte come Mutazioni (The Shifting Realities of Philip K. Dick), non può avere dubbi sul fatto che PKD non avesse quasi mai uno scopo estetizzante. Rifuggiva ogni posa poetica, benché non riuscisse a non essere poetico, esprimeva dolore in ogni parola, senza mai riuscire davvero a perdere ogni speranza in un esito positiv. Aveva sempre fretta di vendere i suoi testi per campare. Spesso era semplicemente troppo strafatto per arrivare in fondo a un lavoro. Mi viene da pensare che chi trova poco apprezzabile la svastica sul sole, potrebbe essere davvero scottato e sconcertato da, per dire, le tre stimmate di palmer eldritch.
The man in the high castle è il suo più strutturato contributo alla letteratura distopica e come spesso, quasi sempre gli accadeva, è anche un romanzo con delle incompiutezze, a tratti apre sfilacciato, come tanti degli esiti delle sue storie. Definire “brutto” un romanzo di Dick non gli pesa affatto addosso come un’accusa infamante. È emblematico il fatto che non sia stato possibile coinvolgerlo come co-sceneggiatore di Blade Runner, perché la sua opera non c’entrava in definitiva davvero niente, con le intenzioni registiche di . Roy Baty in do androids dream of electric sheep è un tossico e, se non mi ricordo male (son passati gli anni anche per me) è pure calvo e sovrappeso. Niente a che fare con “Ho visto cose…”.
Dick è così: è brutto, è sporco, è antipatico, nonché spesso incoerente e, infine, delirante (vedi, rievoco assai antiche memorie, l’illeggibile trilogia di valis).
È questa la sua vera grandezza, al di là della sua prigionia nel genere in cui ha conseguito la notorietà e da cui ha più volte cercato di fuggire con romanzi che non sono andati da nessuna parte (e.g. L’uomo dai denti tutti uguali). Concordo, insomma: è brutto. In inglese è uguale: il compianto Maurizio Nati lo tradusse con grande amore.
Grazie allora della provocazione, che mi ha permesso di riandare con la mente ad opere che un tempo sono state importanti, per me, e alle quali non ripensavo da molto tempo. È questo il bello di un gruppo del genere, non il fatto che tutti debbano diventare alti recensori e critici letterari.
Ma ora mi voglio dedicare più in dettaglio a una disanima di questo libro dalle mille facce.
Innanzitutto siamo di fronte a un libro che parla di libri, ma non semplicemente questo. I libri sono veri protagonisti, insieme e più di alcuni personaggi.
C’è innanzitutto il libro dei mutamenti, l’I Ching, testo oracolare cinese potentemente poetico, con quello che chi ne sa, fuori e dentro la linea temporale dell’uomo nell’alto catello, definisce un “forte legame con il tao” e che i giapponesi hanno adottato, in una specie di contro colonizzazione, dato che in questa linea temporale i cinesi sono tra le “razze” asservite, ridotti a pedalatori di risciò. L’I Ching gioca un ruolo centrale in tutto il progredire della narrazione e i personaggi princiupali ne fanno uso o ne sono comunque influenzati. Il ruolo di questo libro cresce fino a farsi entità senziente e a sua volta autore di libri. Ma non voglio correre troppo avanti.
L’altro libro protagonista è l’opera a cui indirettamente si riferisce il titolo dell’opera che abbiamo in mano “la cavalletta non si alzera più”, ucronia nell’ucronia, romanzo sovversivo e proibito a vari livelli nei territori americani governati dai giapponesi nel quale l’autore o supposto tale, l’uomo nel castello alto del titolo, narra di un universo alternativo in cui gli alleati, assurdamente, dal punto di vista dei protagonisti, hanno vinto la seconda guerra mondiale. Ma occhio, la linea temporale della cavalletta non è la linea temporale da cui io mi trovo a scrivere adesso. La cosa è assai chiara, leggendo i passi riportati. È una linea temporale nella quale, per esempio, Chiang Kai-shek governa la Cina, che è diventata una semi colonia americana, e Hitler è stato catturato e processato. Quindi si tratta comunque di una linea temporale altrettanto diversa dalla mia e plausibilmente dalla vostra.
Non è chiaro, ma forse sul farsi della fine del nostro romanzo si intravede una terza linea temporale. Lo vediamo dopo.
Un altro libro citato e descritto, ma certo assai meno rilevante è un curioso romanzo dello sfortunato e talentuoso Nathanael West, Mrs Lonelyhearts, tradotto in italia in La Signorina Cuorinfranti. Uno strano romanzo, che merita di essere letto ma sul quale qui non mi dilungo oltre.
Veniamo ai castelli. Ce ne sono due. Quello del titolo, che è in verità un castello solo nella propaganda del suo castellano, l’Autore ma non proprio l’alterego di Dick, come diremo sotto.
Poi c’è l’altro castello, citato una sola volta ma la cui ombra incombe su tutto il romanzo: si tratta del “castello” per eccellenza del nazismo, il castello maledetto di Wewelsburg, quartier generale delle SS, scelto da Himmler come base del suo osceno potere per il carico di leggende e stragi che quella zona e quel castello in particolare, incarnavano nella aberrante visione mistica tanto di cui il nazismo nutriva il suo cuore nero.
Ogni personaggio ha un ruolo fondamentale, incarnando pressoché ognuno un aspetto altrettanto importante del romanzo e della poetica di PKD: vediamone qualcuno.
Frink. Un fattore narrativo la cui importanza può sfuggire al lettore disattento, è l’arte del timido e brutto Frank Frink, l’ebreo che si nasconde per evitare le camere a gas naziste a New York, il marito abbandonato da Juliana, la bellissima e destabilizzante femme fatale dickianamente inevitabile. Frink, al secolo Fink, new yorkese fuggito all’onda nera del nazismo verso l’ovest del sol levante, è una delle figure nodali del romanzo proprio attraverso la sublime, mistica e misteriosa azione dell’artigiano, potere occulto tramite il quale il mondo può essere forgiato e manipolato. Questo è uno dei temi ricorrenti di P.K.Dick. Lo si ritrova nel suo romanzo autobiografico sugli artisti di merda, in tante opere più o meno minori, come Guaritore Galattico (Galactic Pot-Healer: può un riparatore di vasi aiutare un’entità semi-divina a compiere il suo destino?) o come in molti suoi racconti, tipo quello degli alieni biltgog del racconto Diffidate delle imitazioni (Pay for the Printer): quelle patetiche meduse aliene, vado a memoria, che replicano oggetti di uso comune per i pochi umani sopravvissuti, oggetti in ultima analisi anche francamente inutili, dalla polvere in cui la stupidità umana della guerra ha trasformato il mondo, fino a morirne e mentre gli uomini hanno perso la capacità artigianale sufficiente a ricostruire un seme di tecnologia, fino a quasi non poter concepire come si possa passare da una pietra a un martello, su su fino a un razzo orbitale.
L’artigiano ha il potere di riscrivere la realtà, così come lo scrittore, ma forse a un livello persino superiore. Questo introduce un tema ancor più generale della poetica Dickiana, il rapporto non banale con la realtà. La visione scissa tra l’uomo che ha scritto “Reality is that which, when you stop believing in it, doesn’t go away” (How To Build A Universe That Doesn’t Fall Apart Two Days Later) e il suo gemello strafatto dell’impero romano che domina il mondo attraverso un velo di maja olografico.
Questa doppia percezione della realtà, come qualcosa di tremendamente reale ma evanescente al contempo, è una delle cose più intriganti di Dick, probabilmente un sintomo, se non la radice stessa, del suo costante malessere. Negli anni poi, verso valis, la realtà si fa sempre più impalpabile e orribile, così come la poetica.
Ma divago. Abbiamo quindi una fede manichea in un potere per il bene, per la realtà, nelle mani dell’artigiano e nella penna dello scrittore, che aprono squarci su una realtà malvagia e opprimente, verso un mondo forse più vero o forse no. Il disvelamento dove ci porta?
L’artigianato di Frink si contrappone anche all’orrido industrialismo nazista per la creazione attraverso il riuso di parti dei corpi umani che essi amano lacerare e distruggere:
“C’era un esercito di automi, che costruiva e sfacchinava. Costruiva? Maciullava, piuttosto. Orchi spuntati da un museo di paleontologia, tutti intenti nell’operazione di ricavare una tazza dal cranio del nemico: prima l’intera famiglia ne raschiava il contenuto, cioè il cervello crudo, poi se lo mangiava. E inoltre utensili preziosi ricavati dalle ossa delle gambe degli uomini. Un bell’esempio di economia, pensare non solo di mangiare la gente che non ti andava a genio, ma di mangiarla dentro il suo stesso cranio. I primi tecnici! L’uomo preistorico in un camice bianco sterile da laboratorio, all’interno di qualche università berlinese, che faceva esperimenti sugli usi ai quali potevano essere destinati il cranio, la pelle, le orecchie, il grasso di altre persone. Ja, Herr Doktor. Un nuovo impiego per l’alluce; “vede, si può adattare la giuntura per il meccanismo di un accendino a scatto. Ora, se solo Herr Krupp potesse produrne in quantità…” Quel pensiero lo fece inorridire: l’antico, gigantesco cannibale, quasi-uomo, che adesso prosperava, ed era tornato a governare il mondo. C’è voluto un milione di anni per sfuggirgli, pensò Frink, e lui è tornato. E non come semplice avversario… ma come padrone.“
La cieca produzione industriale, unita alla bestialità del nazismo, svilente di ogni umanità, contro il valore salvifico dell’opera singola, pregna di identità. Questo tema ritorna nel momento in cui, per lo scialbo inutile artefatto frinkiano si apre, su proposta dei padroni giapponesi, una prospettiva di produzione in serie. Ma il tao, il wu o quello che volete voi, che è presente nell’oggetto ora, come potrà mai trasferirsi alle sue copie seriali? È un altro dei temi dickiani, la costante dicotomia originale-copia. Cosa è originale, cosa è replica?
Tagomi, il giapponese , il dominatore vittorioso ma “dolce”, uomo saggio intriso di misticismo e di un formalismo intrigantemente nipponico, la sua vicenda si intreccia da lontano con quella di Frink, per il tramite quantomai indiretto del mercante di “antichità” americane, per le quali i giapponesi hanno una vera mania, Childan. Frink produce un gioiello brutto e informe, privo di valore estetico e venale, a detta di tutti i personaggi che ne parlano e lo descrivono, ma, sempre a parere degli stessi, intriso di potere, fortemente “parte del Tao”, come dicono i giapponesi, che scompensa coloro che ne vengono in contatto portandoli in un dickiano procedere, dal disprezzo alla fascinazione e che, con il suo potere trasporterà Tagomi, in un momento di elaborazione e disperazione per il trauma derivante dall’aver ucciso due sicari nazisti per autodifesa, lo porterà dicevo, fisicamente in un universo dove la dominazione giapponese (e, possiamo inferire, nazista) degli USA non si è mai realizzata. Sarà il nostro universo? Sarà quello della cavalletta? Non è facile intuirlo, il segno più visibile è l’orrenda presenza della Embarcadero Freeway, mai costruita nel piano di realtà dominato dall’Asse e demolita, fortunatamente, almeno nella nostra timeline, negli anni ‘80 del XX secolo.
“si ritrovò sul marciapiede. Dove sono? Fuori dal mio mondo, dal mio spazio e dal mio tempo. Il triangolo d’argento mi ha disorientato. Ho rotto gli ormeggi e adesso vado alla deriva, senza nulla a cui aggrapparmi. Questo è il premio per il mio comportamento. Mi servirà di lezione per sempre. Si cerca di contravvenire alle proprie percezioni… perché? Per vagare sperduto, senza un riferimento o una guida?“
Ma infine riesce a ritornare al suo universo rassicurante, dove lui è parte della razza dominatrice e non un disprezzato Tojo, come è stato apostrofato nella sua breve visita transuniversale, con questa traslazione, riesce inoltre a superare il baratro nero, l’ipotesi del suicidio, in cui lo avevano precipitato i fatti recenti della sua vita, il suo coinvolgimento nel tentativo di evitare che la fame di sterminio nazista porti al passo successivo, all’annientamento dei popoli asiasitici:
“Io sono una maschera che nasconde la realtà. Dietro di me, nascosta, la realtà continua, al riparo da occhi indiscreti. Strano, pensò. A volte è importante essere semplicemente una facciata di cartone. C’è un po’ di satori in tutto questo, se solo riuscissi a capirlo. Lo scopo all’interno di uno schema complessivamente illusorio, del quale non sappiamo andare a fondo. È la legge dell’economia: niente va sprecato, nemmeno l’irreale. Sublime, questo processo”
Childan, si dibatte tra il suo senso di inferiorità e la rivalsa del debole verso la razza padrona nipponica, tanto disprezzata durante la guerra, spingendosi alla patetica concupiscenza per la giovane moglie di un suo cliente, dall’assurdo nome di Paul, vede il suo giro d’affari e la sua reputazione messi a rischio dal disvelamento che almeno alcuni oggetti del suo negozio sono dei falsi ed è sempre Frink che ne è l’autore, è lo stesso Frink che, sotto mentite spoglie, gli rivela uno squarcio su una realtà che tutti vogliono ignorare, che forse molti intuiscono, gli oggetti da collezione che costituiscono tanta parte delle passioni dei padroni giapponesi, incomprensibili per gli occidentali, sono in larga parte falsi grossolani. Ed è sempre tramite la biogiotteria creata da Frink che Childan trova una spercie di rinascita dell’orgoglio, sentendosi disgustato dall’idea di prostituire la brutta arte americana alla serialità.
Juliana è fuggita al patetico matrimonio con Frink ed è andata ad occupare una terra di mezzo, a vivere nella zona cuscinetto negli stati centrali, tra il crudele dominio nazista, fatto di campi di lavoro e camere a gas, di cui abbiamo solo degli scorci, e il protettorato giapponese dell’ovest, la California, in cui la maggior parte della vicenda romanzesca si ambienta. Una terrea di nessuno in molti sensi. Lì lei pratica il suo judo lì incontra il supposto italiano Joe, killer nazista che poi… Questo ve lo lascio da leggere
“Juliana… [attraverso gli occhi di Frink] la donna più bella che avesse mai sposato. Ciglia e capelli nerissimi, tracce consistenti di sangue spagnolo distribuito come puro colore, perfino nelle labbra. Un’andatura elastica, silenziosa; ai piedi scarpe sportive, un ricordo del liceo. In realtà ogni suo capo d’abbigliamento aveva un aspetto sciupato, e dava la netta impressione di essere vecchio e lavato più volte. Tutti e due erano stati così poveri che, malgrado la sua bella figura, Juliana era stata costretta a indossare una camicetta di cotone, una giacca di tela con chiusura lampo, una gonna marrone di tweed e calze fino al ginocchio, e odiava sia lui che quell’abbigliamento perché, diceva, la faceva sembrare come una donna che giocasse a tennis o (peggio ancora) che andasse a raccogliere funghi nei boschi.”
Il rapporto di Dick col femminile è sempre disturbante, sua madre, le sue mogli, donne che lo conturbano e lo massacrano con la loro personalità dominante. I personaggi di Dick hanno in generale la caratteristica di mostrare vari lati, di mutare nei modi più imprevedibili nell’andare della storia o anche nell’arco di poche frasi. Nulla è come sembra, niente è immutabile, tutto ti si può improvvisamente rivoltare contro.
P.S.
Consiglio umilmente, come faccio sempre con chi ha litigato con un libro o con tutto un autore, di dargli una possibilità in forma di audiolibro. A volte è un modo per mitigare il disdegno per una lettura che ci ha lasciato insoddisfatti, di un testo che tanti altri trovano bello o illuminante.
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