Filosofia,  Riflessioni

Il relativismo e gli universali e culturali

Ripartiamo un attimo dalle conclusioni del mio ultimo video, quello sul mondo a misura di idiota: l’uomo come misura di tutte le cose. C’è stato chi, anima bella, ha ironizzato su quella chiusura, ritenendo che l’affermazione di Protagora sia in qualche modo banale e data per acquisita, se non addirittura scontata.

Niente di più sbagliato.

Il concetto espresso dal filosofo di Abdera, che è ritenuto da alcuni il primo esempio storico di una visione relativistica della realtà, è molto presente nella storia del pensiero ed è stato interpretato in molti modi, spesso contraddittori.

Se infatti l’uomo è misura di tutte le cose, dunque la prospettiva di ogni singolo e ogni cultura ha pari dignità, si può d’altra parte affermare che l’uomo è la costante di ogni cultura umana e che questo può far pensare che esista un concetto che mi stuzzica da molto tempo: quello di universale culturale.

La nostra cultura occidentale viene da una lunga tradizione di assoluti culturali, che sono una cosa ben diversa dagli universali.

Essendo stati per millenni la cultura dominante di ampie aree geografiche e infine egemone del pianeta, in quanto europei e occidentali, fin dai tempi di Atene, via via con Roma, fino alle dominazioni e ai colonialismi britannico e francese, giù fino alla declinazione americana di questo succedersi di imperi, l’occidente è stato ed è ancora oggi sede di una sensazione di possedere dei valori che oggi in molti percepiamo come universali. Ne sono un esempio la dignità della persona e la libertà dell’individuo, che hanno preso il posto di valori assoluti, come la superiorità dell’uomo bianco su tutti i popoli e la civiltà europea come culmine di un progresso storico inevitabile.

Non troppo paradossalmente, in questo stesso contesto culturale, e dove sennò, è nato anche il concetto di “relativismo culturale”, che appunto, ci ha permesso di passare dagli assoluti agli universali, per poi abbandonarci prede di un relativismo talvolta estremo.

L’antropologia sviluppatasi nel ‘900, ha gettato le basi per una visione delle culture come sistemi peculiari, e con dignità paritetica. Per questo siamo passati a vedere, per dire, gli aborigeni australiani non più come dei selvaggi incolti, ma come depositari di una loro propria cultura, ricca e degna di rispetto e studio.

Questo processo di relativizzazione della cultura nasce nella società occidentale in quanto società aperta ed è esso stesso un portato della nostra cultura.

Chiunque abbia anche un minimo di esperienza delle culture, per dire, medio orientali e nord africane o asiatiche, ha potuto toccare con mano lo scarso interesse che quelle aree culturali sembrano avere per una visione relativistica della cultura.

In particolare le culture con forti fondamenta religiose, difficilmente possono vedere la cultura come un fatto relativo. Possono essere talvolta pragmaticamente tolleranti e inclusive, come fu per esempio l’impero turco in alcune fasi della sua storia, ma sono fenomeni molto sporadici.

Per inciso va detto che i periodi in cui la tolleranza fu praticata come linea guida del governo e della società, furono anche le fasi in cui la civiltà turca, altrimenti rigidamente islamica, vide il suo momento di massimo splendore, grazie all’accoglienza  di intelligenze ed energie in fuga da luoghi meno tolleranti ed aperti, come larghe parti dell’Europa di quell’epoca e di tante epoche successive.

I pensieri religiosi hanno in sé l’imperativo di respingere ogni forma di relativismo culturale, opponendogli imperativi assoluti in campo morale, dettati dalla peculiare mitologia di ogni religione.

Ciò è vero oggi come è stato vero in passato, anche in occidente. La chiesa cattolica, per non parlare della chiesa ortodossa russa, fortemente allineata alla politica del regime russo, vedono nel relativismo culturale un orrido nemico.

Così, anche le ideologie del XX secolo non possono tollerare il relativismo. Da una parte abbiamo le discendenze politiche marxiste, con la loro visione deterministica e magicamente teleologica della storia; dall’altra le ideologie di stampo fascista, basate sul ruolo della razza e su presunti spiriti e destini dei popoli, anche loro ciecamente teleologiche.

Queste teologie senza dei ma piene di profeti, non possono nemmeno loro tollerare visioni alternative del mondo, siano esse quelle propugnate da gruppi ideologici antagonisti appartenenti alla medesima società, quelle provenienti da altre civiltà o appartenenti a popoli “primitivi” contemporanei.

È impensabile, all’interno di questi quadri di riferimento ideologici, che tali dottrine eterodosse possano offrire dei contributi alla cultura del nostro tempo, essendo tali “altri”, in queste visioni rigidamente finalistiche della storia, antagonisti o, peggio, residui di un’epoca superata dalla storia stessa. Una vera e propria scoria da eliminare, anche fisicamente, per sgombrare il passo al domani, che solo i profeti di queste ideologie hanno saputo vedere.

La società aperta è l’unica forma di aggregazione umana, che ha fatto del relativismo culturale uno dei suoi aspetti fondanti, usandolo come chiave di lettura della complessità interculturale del mondo.

L’antropologia culturale moderna, originatasi non casualmente negli stessi paesi in cui la società aperta ha preso la forma delle democrazie liberali e socialdemocratiche, ha adottato in modo irreversibile un approccio metodologico basato su una visione relativistica.

La radice di questa chiave di lettura innovativa della realtà, è nell’occidente anche per un fatto storico da non sottovalutare: essa deriva dal relativismo elemento fondamentale dalle scienze fisiche fin dalla relatività galileiana, fondamento di tutta la fisica moderna e germe della più estesa relatività einsteniana.

Di lì il relativismo è stato mutuato in pressoché tutte le altre scienze, fino ad assumere significati davvero diversi quando le discipline umanistiche lo hanno fatto proprio, per poi entrare a far parte dell’abito mentale di larghe parti della nostra società.

Questo atteggiamento sembra portare però a più di un paradosso, se applicato in modo pedissequo, sia nella ricerca, sia nella nostra visione della civiltà umana nel suo complesso.

L’antropologia culturale ha adottato il relativismo come metodologia ma, a parte certi entusiasti, questa disciplina si è dotata di un relativismo scettico e analitico, mantenendolo sul piano pragmatico e cercando di evitare derive ideologiche verso una visione anarchicamente relativista dell’etica.

Questo genere di cautela che ben ci si attende da una disciplina scientifica, non si ritrova però nel relativismo culturale calato nella società nel suo complesso.

Se infatti inizialmente questo sovvertimento del paradigma della nostra visione delle civiltà umane, doveva contrapporsi con tutte le sue forze a quelli che chiameremo “assoluti culturali”, cioè le basi ideologiche dell’atteggiamento suprematista e razzista della cultura occidentale nei confronti delle altre culture, oggi l’estremizzazione di questo atteggiamento sembra portarci verso un immobilismo imbelle, che rifiuta la necessità di spingere le società “altre” e quella occidentale a un punto di vista convergente e condiviso sulla dignità umana e sui diritti dell’uomo, lottando strenuamente perché certi nostri conseguimenti diventino patrimonio culturale di tutti.

Il motivo è quello che dicevamo prima: le società “altre”, mi spingerei a dire tutte le società che non hanno adottato un modello democratico di stampo occidentale, non sono interessate ad incontrarci a metà strada, almeno nella visione dei nuovi assolutisti del relativismo culturale.

Scusate il paradossale gioco di parole, ma i paradossi che il relativismo e l’assolutismo culturale possono provocare sono moltissimi.

La società aperta è forse un obiettivo della storia, pur dovendo per sua stessa natura evitare di crogiolarsi nelle metafisiche teleologiche?

Il relativismo culturale deve quindi abbracciare come appartenente a certe culture la visione totalitaria delle religioni e delle ideologie?

Il progresso come processo finalistico evidentemente non esiste, ma non è forse un fatto che tutti i popoli mirano concordemente a migliorare le proprie condizioni di vita?

Il relativismo culturale nasconde forse certe forme di criptorazismo, fungendo da sottile modo per mantenere l’altro a distanza? In certi discorsi antioccidentali non si può del tutto escludere di sentire la puzza di qualcosa di simile.

Paradossi.

E, in definitiva, pretendere che la democrazia sia un valore assoluto e che chi non la ha la vorrebbe avere, è una forma di sciovinismo culturale?

Gli iraniani e specialmente le iraniane, che si rivoltano all’osceno regime teocratico che governa il loro paese, lo preferiscono comunque a un’alternativo regime di democrazia e stato di diritto, perché d’importazione?

Il cinese ben sta nel suo regime politico di stampo sempre più autocratico e militarista e lo predilige, mentre gli alienati dalla loro cultura sono i taiwanesi con vizi democratici?

Il nord coreano è culturalmente destinato a nutrirsi di erba dei prati in una esistenza compiutamente orwelliana e i devianti sono i sud coreani, che hanno realizzato un’economia avanzata in una società che, per quanto peculiarmente asiatica, si è data anima e corpo a una vita democratica con tutti i suoi limiti?

Troppe domande, che oltretutto si moltiplicano, se si prendono in considerazione anche quelle poste dai tanti difetti delle nostre società occidentali.

Cercando di riflettere su queste faccende, inevitabilmente viene da chiedersi se tra le varie culture umane esistano degli elementi invarianti, incontrovertibilmente universali.

Dato che però sappiamo bene come può essere accolto un simile argomento partendo da una prospettiva europea, e per evitare di essere tacciato, ad opera dei nostri amici “antioccidentali” di tendenze neo colonialiste da maschio bianco gisgender privilegiato, mi piace partire con questa riflessione tirando in mezzo il filosofo africano Kwasi Wiredu e il suo libro “Universali e particolari culturali: una prospettiva africana”.

Tra i contributi del filosofo ghanese alla questione degli universali culturali, c’è la proposta di un universalismo critico, che riconosce che, nonostante le differenze culturali, ci sono alcuni valori e principi umani fondamentali che sono universali. Un punto di vista intuitivo ma da lui ben argomentato.

Il suo ragionamento parte dall’assunto che esistendo la comunicazione interculturale, tra tutte le culture, può essere dimostrata, tramite la reductio ad absurdum, l’esistenza di elementi culturali universali. Se essi non esistessero “La comunicazione interculturale sarebbe impossibile”.

Questi principi universali possono essere utilizzati come base per valutare le pratiche culturali, conducendoci al rifiuto dell’idea del “relativismo assoluto”, secondo cui le pratiche culturali sono tutte ugualmente valide.

Wiredu sostiene che le culture possono e devono evolversi. Le valutazioni critiche possono portare a riforme culturali, in cui pratiche dannose o arcaiche sono modificate o abbandonate a favore di pratiche più giuste e umane. Tutto questo da un confronto produttivo tra le culture e una loro positiva influenza reciproca. Una forma globale di società aperta.

Mi pare rinfrancante che proprio da uno dei pensatori più importanti del continente che maggiormente ha sofferto del colonialismo occidentale, venga gettato un ponte verso quella società dei diritti che è stata prodotta da quello stesso occidente colonizzatore.

Le critiche sollevate al relativismo culturale dal lato di coloro che lo vogliono contemporaneamente difendere, non si limitano certo a queste. In ambito filosofico si è sollevato il dubbio che l’estremizzazione del pensiero relativista non possa che portare a una visione nichilista della società.

Un esempio ne è il libro di Ian Jarvie, “Razionalità e relativismo”. L’allievo di Popper mira a stabilire un equilibrio tra la necessità di riconoscere la validità di diverse prospettive culturali (relativismo) e l’importanza di mantenere un certo grado di standard oggettivi e universali di razionalità.

Siamo di fronte a una forte critica delle tendenze estreme nel relativismo culturale, sostenendo che una visione troppo permissiva può portare a una forma di relativismo radicale, che nega qualsiasi possibilità di giudizio o valutazione oggettiva. Allo stesso tempo, Jarvie riconosce i limiti della razionalità come concepita in una prospettiva occidentale, invitando a una maggiore apertura verso le diverse forme di logica e di ragionamento presenti nelle varie culture.

Sono chiaramente riflessioni analoghe a quelle che troviamo alle radici dell’antropologia culturale, in Lesi-Strauss, quando afferma “Il pensiero selvaggio è logico, nello stesso modo del nostro, ma solo nei casi in cui il nostro si applica alla conoscenza dell’universo a cui riconosce simultaneamente proprietà fisiche e proprietà semantiche”.

Quindi pare proprio che il pensiero umano condivida quantomeno una base logica comune a prescindere dall’appartenenza a una civiltà o a un’altra, per quanto semplice o strutturata essa sia.

Andando  un po’ più sul concreto quali potrebbero essere gli universali culturali, questa sorta di ipotetico codice nativo comune a ogni cultura?

Uno degli elenchi che vengono riportati dai pochi che si preoccupano di questo argomento è, più o meno, il seguente:

  1. Linguaggio e Comunicazione: Tutte le società umane hanno sviluppato una forma di linguaggio per comunicare. Il linguaggio può variare enormemente nella struttura, ma tutte le lingue e le altre possibili forme di linguaggio forniscono un mezzo per esprimere idee, desideri e emozioni. Per di più ogni lingua può essere tradotta in ogni altra.
  2. Norme Sociali e Leggi: Ogni cultura ha un insieme di regole che governano il comportamento accettabile all’interno della società. Queste possono includere leggi formali così come norme sociali non scritte.
  3. Riti e Cerimonie: Le pratiche rituali, che possono variare da riti di passaggio a celebrazioni di eventi comunitari o religiosi, sono comuni a tutte le culture. Questi riti spesso segnano importanti tappe della vita o eventi stagionali.
  4. Strutture Familiari e Sistemi di Parentela: Anche se la composizione e la definizione di “famiglia” possono variare, ogni società riconosce certi legami di parentela e organizza individui in strutture familiari.
  5. Arte e Espressione Estetica: Tutte le culture producono qualche forma di arte, che si tratti di musica, danza, pittura, scultura, poesia o altre forme di espressione creativa. L’arte sembra riflettere valori culturali e esperienze umane universali.
  6. Concetti di Etica e Giustizia: Benché le specifiche leggi e norme etiche possano differire, ogni società ha concetti di giusto e sbagliato che guidano il comportamento morale e le decisioni di giustizia.
  7. Religione e Spiritualità: Anche se le specifiche credenze e pratiche religiose variano ampiamente, la tendenza a credere in forze spirituali o divine e a praticare forme di culto appare universale.

Quindi, sintetizzando e riducendo all’osso: linguaggio, legge, riti, famiglia, arte. Si potrebbe infatti anche sostenere che tra questi concetti siano presenti dei doppioni, quantomeno apparenti.

Già a una prima lettura di questo diffuso elenco salta subito all’occhio almeno qualche mancanza: l’economia, per esempio. Tutti i popoli hanno in un modo o in un altro creato una forma di economia che consente agli individui lo scambio di beni e servizi.

Poi c’è l’umorismo. Qualcuno (Bateson) ritiene che anche questo debba essere incluso tra gli universali culturali umani.

Brown, tra le decine (centinaia) di altri cita la cucina, che lui collega all’ubiqua conoscenza del fuoco da parte di tutti gli umani attuali. Siamo tutti accomunati da un comune senso del gusto. In generale i nostri sensi ci accomunano.

Christakis ne cita otto, tra i quali l’amore e l’amicizia.

Studi antropologici e sociologici ne citano altri elenchi, non sempre sovrapponibili, molti di svariate decine se non centinaia. Si sono fatti studi anche di tipo statistico, sugli universali culturali.

Si potrebbe andare avanti a cercare di creare elenchi fino a stare male ma non è questa la sede: gli elenchi si allungano a dismisura e il compito di compilarli e compararli eventualmente ricade sull’analisi antropologica e sociologica degli universali.

Qui sto cercando di osservare la cosa da un’ottica filosofica e culturale e comunque assai sintetica.

L’argomento è molto interessante e vi invito a leggere qualcuno dei libri e delle pubblicazioni che vi lascio in descrizione. Alcuni li ho citati esplicitamente, altri no. C’è veramente di che divertirsi.

Il punto è ovvio ma userò le parole di Wiredu, per evitare irritanti accuse di riduzione semplicistica: “Cos’è che ci unisce? Almeno l’inizio di una risposta è facile. È la nostra identità biologico-culturale di homines sapientes.”

Ovvio, appunto, ma non banale, se tenuto come punto fermo di una riflessione critica e avvertita.

I sensi, la postura eretta, le dieci dita, il pollice opponibile, il nostro adattabile cervello, la visione binoculare, i nostri comuni bisogni e le universali paure ataviche, nonché una gamma ancora largamente inesplorata ma certamente vasta di componenti innate della mente umana, ci rendono tutti umani allo stesso modo.

Le differenze tra individui e tra culture sono un fatto evidente, ma dobbiamo mitigare il nostro bisogno di relativizzare per rispettare l’altro, così come sottolinea il più volte citato Wiredu dalla sua prospettiva africana, prima di tutto perché “I diritti umani sono rivendicazioni (claims) che le persone hanno il diritto di avanzare semplicemente in virtù del loro status di esseri umani”.

Quello che mi ha mosso a questa riflessione è l’esigenza di ragionare di nuovo su cosa ci rende tutti umani, ma anche il fortificarmi contro chi propugna una visione relativistica dei diritti e delle libertà, sostenendo che “l’individuo non esiste” nelle altre culture. Si è giustamente affermato che la nostra visione dell’individuo come soggetto e oggetto di diritti inalienabili e universali non è affatto antica. È corretto.

Affermare però che le società che stanno alle spalle della nostra – ovvero la Germania nazista con lo sterminio legalizzato del diverso, le allucinazioni eugenetiche americane, la base razzista dell’Impero Britannico, l’impero romano con la schiavitù come fondamento economico, la Grecia antica con la visione del barbaro come non umano, non concepissero l’individuo è una sciocchezza pari a quella di affermare che società contemporanee, soggiogate da osceni regimi come quello iraniano, quello afgano o quello cinese, siano in questa situazione inaccettabile perché non considerano importante l’individuo.

Mi sono estremamente dilungato quindi voglio chiudere, lasciandomi aperta la possibilità futura di tornare ad analizzare questo interessante argomento.

Chiudo quindi dicendo che quando dobbiamo dotarci di strumenti cognitivi per comprendere il mondo un fattore nodale per un pensiero davvero libero è un approccio fortemente critico, quanto possibile depurato da ideologie, credi e pregiudizi ma anche di una malintesa tolleranza verso pratiche e idee inaccettabili.

L’umano ha una sola strada per eliminare il più grande dei mali e il più orrendo degli atavismi, cioè la guerra, una comprensione reciproca che però opponga dei limiti ben precisi a ciò che è inaccettabile.

In questo la società aperta non può essere più imbelle e remissiva ma deve recuperare l’orgoglio per i suoi conseguimenti e combattere perché i diritti che abbiamo ottenuto per noi possa pian piano diventare patrimonio di tutti gli umani.

L’alternativa è un futuro in cui questi diritti non li avrà nessuno, in nessun luogo.

Un saluto.

Fonti:

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Universals in the Content and Structure of Values: Theoretical Advances and Empirical Tests in 20 Countries: www.researchgate.net/publication/230557790_Universals_in_the_Content_and_Structure_of_Values_Theoretical_Advances_and_Empirical_Tests_in_20_Countries

Cultural universals: www.youtube.com/watch?v=1RgM0VWW5p8

Standard Cross-Cultural Sample: www.researchgate.net/publication/227858909_Standard_Cross-Cultural_Sample_on-line_edition_2008

“Cultural Universals and Particulars: An African Perspective” di Kwasi Wiredu: amzn.to/3HBooU3

“Rationality and Relativism: In Search of a Philosophy and History of Anthropology” di Ian Jarvie: amzn.to/3vWp3Na

“Human Universals” di Donald E. Brown: amzn.to/3wbBx3H

“Blueprint: The Evolutionary Origins of a Good Society” di Nicholas Christakis: amzn.to/49pITyI

“L’umorismo nella comunicazione umana” di Gregory Bateson: amzn.to/3waA51s

“La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper: amzn.to/3vXpE1a

“Relativismo culturale – in difesa di un pensiero libero” di Angela Biscaldi: amzn.to/48fzlWe

“Cultural Relativism Perspectives in Cultural Pluralism” di Melville J. Herskvits: amzn.to/3OJMmQH

Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss: amzn.to/48P9V2K (sulle problematiche dell’edizione italiana di questo classico vedi: Il pensiero selvaggio di Lévi-Strauss tra prima e seconda edizione:

un caso editoriale: ricerca.uniba.it/retrieve/6074291f-a391-4033-a356-d7f6d3c1718c/2016%20NMS%20IAGULLI-SCILLITANI-ABBRUZZESE…..pdf )

Relativismo in Enciclopedia Treccani: www.treccani.it/enciclopedia/relativismo/

Cultural universal: en.wikipedia.org/wiki/Cultural_universal

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