Guerre di (Eno)religione

Sapete quella leggenda che afferma che le celebrità muoiono sempre a gruppi di tre? E il fatto che gli incidenti aerei si affollano tutti in certi dati fine settimana del palinsesto tele-giornalistico? C’è chi sostiene che si tratti di qualcosa inerente i nostri processi cognitivi, al nostro saper riconoscere schemi e indirizzare l’attenzione laddove è importante (ma evidentemente anche inutile) che essa sia, per poter sopravvivere.
Io viceversa ho sempre pensato che questi fenomeni abbiano più a che fare con come funzionano i mezzi di informazione; ma in definitiva forse mi sbaglio: è la mia attenzione che si accorge di un filone di notizie già ubiquamente presenti? Boh! Non importa.
Comunque, ieri mi è successo qualcosa del genere con le guerre ideologico-enologiche che sembra imperversino nel mondo del vino. Dico “sembra”, perché finora non mi ero accorto di questa radicalizzazione, trovandomi pacioso nel mio centro zen che si chiama “lavorare come un mulo” per far vino ed altre amene cose. Un po’ disdicevole per un professionista del settore, lo ammetto.
Prima l’amico Michele Ranieri, collega, consocio #FIVI e co-consigliere nei Vignaioli Toscani Indipendenti,
me ne ha parlato al telefono, poi ho letto l’articolo di Francesco
Saverio Russo dal titolo “Tutti contro tutti… ma perché?” ( tinyurl.com/v8orx6e
) e da lì mi sono accorto di un fioccare di contributi sull’argomento.
Sono proprio un tipo distratto, insomma. Sarà forse perché ho un alto
livello di tolleranza per le atmosfere polemiche (mi ci trovo in
famiglia, per dir meglio) e quindi il fatto che non mi fossi accorto di
questo turbine di ostilità dice più su di me che sul mondo del vino.
Sta di fatto che mi sembra un classico fenomeno da modaioli
integralisti – come dice bene e con più agili parole Francesco Saverio
Russo – della serie “barrique o morte!” “Vitigno internazionale
(supertuscan) o morte!”
Adesso il modaiolo vuole, fortissimamente vuole:
Lieviti indigeni e io faccio solo fermentazioni con lieviti “selvaggi”,
“indigeni” e anche un po’ aborigeni, già che ci siamo. “Morte ai
selezionati!!!” ( Angeli e demoni: tinyurl.com/u6xhaye ).
Poi oggi, adesso, proprio in questo istante, il buveur à la page beve solo autoctono. E io pianto solo autoctoni! Della serie: “Ma però fai anche del Cabernet?!”, “Sì, ma me lo sono trovato e poi il Cabernet c’è da secoli, in Toscana!” (arrossendo).
E poi: “A Milano se non sei naturale non esisti!”. MA ALLORA IO ESISTO!!! Beh, almeno a Milano, dai. Un bel passo in avanti da quando, da quelle parti, dicevo: “Faccio Sangiovese!” e mi sentivo rispondere “Ah! Sei romagnolo?”
Ma bada! Faccio tendenza! Non me lo sarei mai aspettato: dopo un’intera vita a nuotare controcorrente, avversando ogni moda e comprando i romanzi di successo anni dopo la loro uscita, adesso cavalco l’onda del consenso degli “esperti”, dei “winelover” e dei modaioli arrabbiati.
Improvvisamente mi trovo inquadrato tra i guardiani della rivoluzione naturista senza aver nemmeno alzato la mano!!!
E preso un po’ di sorpresa, parlandone e, ora, scrivendone, mi è venuta fuori una di quelle mie risposte istintive che tanto danno fastidio a quelli con cui alzo polemica nel tempo libero: “E chi se ne frega!”
Dico qui quello che ho detto a Michele Ranieri mentre ne parlavamo: noi siamo quelli che il vino lo fanno. Le querelle tra maestri di stile dei salotti buoni non ci devono interessare!
Semplicemente la cosa per me non riveste nessun interesse perché, come vinicoltore* faccio quello che faccio dopo molta – costosissima, sotto molti aspetti – sperimentazione, infinito studio e seguendo la mia sensibilità ma, per quanto mi riesce, in modo laico, senza lasciarmi prendere da derive etico/etiliche.
Quando, nel 2011, decisi di iniziare a vinificare senza lieviti selezionati non sapevo bene quello che si sarebbe nascosto poi in fondo alla bottiglia, ma quello che vi trovai e che le poche persone che hanno ancora del #Purneia 2011 da stappare – ne fa fede per esempio un messaggio che ho ricevuto qualche giorno fa da Rocco Giuseppe Lombardo, un appassionato che tra i primi, anni fa, ha creduto nel mio lavoro e mi ha seguito fino ad oggi – ancora oggi trovano, è così bello che non vedo perché non avrei dovuto proseguire su quella strada. Questo non vuol dire che i produttori che usano bene i lieviti industriali debbano sentirsi accerchiati: amici, fregatevene e fate il vino che vi piace fare!
Quello stesso anno abbattei decisamente l’uso di solforosa, questo è un dictat “modaiolo” di cui sopra mi sono dimenticato, decidendo di usare solo uve perfette, lavorando continuamente per migliorare l’igiene di cantina, mutuando anche quello che ho imparato studiando da mastro birraio in materia di controllo dei contaminanti**. Il mio vino resiste bene senza bisogno di aggiungere solforosa ad ogni travaso. Scettici? Non ci credete? Io dopo 9 anni apro delle bottiglie che avevano 25g/l di totale al momento dell’imbottigliamento e che sono PERFETTE! Dimostra qualcosa? No. Dimostra solo che per me quel metodo funziona e vaffa@@@ a quelli che dicono che il vino con bassi livelli di solforosa non può durare. E il vino che non ce la fa? IN DISTILLERIA! Non in bottiglia.
Sono un arcangelo degli autoctoni? Beh, diciamo che non sopporto generalmente il Merlot, ma con gli altri “internazionali” (francesi?) non ho tanti problemi. Mi garba parecchio un apparente alieno come il Tempranillo del Valdarno che fa il grande Pietro Beconcini (Pietro Beconcini Wine). Però a me piacciono il Sangiovese e il Trebbiano. Punto. Sono toscano. Non è religione, è sbornia campanilista! Vuoi fare il tuo vino con un vitigno che è stato ammesso alla coltivazione l’altro giorno? Fai come ti pare. Il tuo vino mi fa schifo? Affari miei.
Bene, mi si potrebbe obbiettare: “Però tu ti autodefinisci ‘naturale’, come la metti?”
Ne parlerò in un prossimo post, ma la mia posizione è così ben
sintetizzabile che la metto giù facile, qui: il regolamento europeo mi
ha scippato della definizione “vino biologico”, regalandola
sostanzialmente ai grandi gruppi industriali, grazie alle assai larghe
maglie sulle pratiche di cantina.
Come posso rappresentare il mio
bisogno di ricorrere all’intervento minimo per ottenere i vini, se sono
costretto a definire il mio vino alla pari di quello prodotto mettendoci
dentro tutto quello che viene in mente all’enologo di un grosso
imbottigliatore?
Non posso, se non staccandomi da quel modo adottando una definizione che mi avvicina a chi ha questo mio stesso bisogno.
Per questo definisco il mio vino come naturale, perché definirlo biologico*** non lo definirebbe affatto.
Quindi, cari amici, il vino esiste per chi lo beve (dopo averlo comprato) ed è come lo vuole chi lo fa (se quello sa quel che fa). Tutti gli altri vadano a quel paese.
NOTE:
*ALLARME neologismo! Sì, ebbene andatevelo a vedere qui: it.wiktionary.org/wiki/vinicoltore E non conta che le voci relative su wikipedia le abbia iniziate io, traducendole dal francese!!!
** La birra, non contenendo solforosa, è molto più fragile del vino, in
quanto a contaminazioni batteriche durante le fasi di fermentazione e
maturazione.
*** I linguisti della domenica dovrebbero darsi pace e
capire finalmente che “biologico” non ha di per sé più senso di
“naturale”, in questo contesto.